Una gestione razionale dell’uso dell’acqua superficiale e sotterranea potrebbe, tra i tanti risultati positivi sul bilancio idrico complessivo e sulla tutela quali-quantitativa delle risorse idriche, dare un contributo significativo all’attuazione del principio del cost recovery introdotto dalla direttiva europea 2000/60/CE.
Ma in Italia, come spiega Alfredo Didomenicantonio nel suo contributo, siamo ben lontani da una gestione razionale. La legge che regola il meccanismo di concessione per la derivazione e l’emungimento delle acque pubbliche e di riscossione dei relativi canoni risale al 1933 e non ha mai ricevuto aggiornamenti, se si esclude il trasferimento del demanio idrico alle Regioni.
Si è piuttosto verificato un progressivo deterioramento delle procedure di autorizzazione e riscossione, che nella determinazione dei canoni ignorano la valutazione dei volumi estratti, della profondità e del pregio della risorsa captata, dei riflessi ambientali conseguenti al depauperamento dei serbatoi sotterranei. E restano invece ancorate a concetti obsoleti come quello di “uso domestico” dei pozzi.
Da una gestione razionale e dalla costituzione di banche dati aggiornate su derivazioni e pozzi potrebbero scaturire importanti risorse economiche, che andrebbero però indirizzate esclusivamente all’efficientamento dei servizi idrici integrati.
Il sistema delle concessioni delle acque pubbliche trova fondamento nel Testo Unico n. 1775 del 1933 concepito in un contesto socioeconomico ed ambientale molto diverso da quello attuale.
La popolazione italiana, che negli anni ‘30 contava circa 40 milioni di abitanti, è passata ai circa 60 milioni attuali con esigenze e standard di vita non paragonabili. Ciò ha comportato una dilatazione della domanda di acqua per usi civili, agricoli e industriali.
Per contro la disponibilità di risorse immagazzinate nei serbatoi superficiali ha registrato una progressiva stabilizzazione della riserva invasata e si sta evidenziando la riduzione delle riserve immagazzinate dai ghiacciai e dalle nevi perenni.
L’accesso alle risorse sotterranee di pregio e protette, reso possibile dalla diffusione delle tecnologie di perforazione profonda a basso costo, ha in parte sopperito alla riduzione della disponibilità di risorse superficiali. La possibilità di accedere alla risorsa sul posto avviene tuttavia a scapito del normale deflusso delle acque sotterranee verso le scaturigini naturali e spesso intaccando le riserve non rinnovabili.
Il ricorso a tali metodi di estrazione è ormai largamente diffuso e affetto da elevati tassi di abusivismo.
Il TU 1775/33, nato per regolare le derivazioni e le estrazioni di acque di interesse pubblico, interessanti al punto tale da essere iscritte in un registro delle acque pubbliche, ha finito per riguardare tutte le acque superficiali e sotterranee a seguito di quanto disposto dalla legge n. 36/94 (legge Galli).
Anche la governance del rilascio delle concessioni ha subito nel tempo significativi mutamenti.
Le verifiche di compatibilità tra domanda e risorse, al netto delle necessità ambientali, e la regolazione degli accessi concorrenti, prima in capo agli organi tecnici dello Stato, sono state trasferite alle Regioni e da esse in parte delegate alle Province, sotto la supervisione delle Autorità di bacino (ora Distrettuali) che emettono un parere vincolante sulla ammissibilità della concessione.
Che il governo delle acque di cui al TU 1775/33 sia largamente deficitario lo dimostrano diverse inchieste, tra le quali:
http://inchieste.repubblica.it/it/repubblica/rep-it/2012/10/02/news/pozzi_d_acqua-43710961/
Emerge da queste inchieste che siamo di fronte ad un patrimonio idrico del quale gli amministratori non conoscono la reale consistenza, quanto di questa sia stata già concessa, quanto è il residuo disponibile e di conseguenza quanto sia ancora concedibile, il tutto a fronte di un sommerso abusivo difficilmente stimabile.
Si pongono due domande.
La risposta alla prima sta nel fatto che il paese dispone di una rilevante quantità di risorse tale che gli accessi concorrenti, pur alterando localmente o stagionalmente gli equilibri non arrivano a un punto di indisponibilità della risorsa tale da innescare conflitti sociali stabili. A livello politico tali crisi si risolvono con Osservatori o Unità di crisi, passerelle per politici cui viene fatto credere di avere un ruolo nella gestione di emergenze che puntualmente scompaiono con i cambi di stagione.
Purtroppo si assiste ad un trend di decremento progressivo delle potenzialità idriche, le cui vittime immediate, silenziose, e di cui si ha scarsa memoria, consistono nella contrazione degli habitat acquatici e terrestri dipendenti dalle acque (GWDTE), a fronte di una ricerca dissennata di nuova risorsa tramite captazione sempre più spinta di vecchie sorgenti e approfondimento di pozzi e in presenza di misure di risparmio idrico solo dichiarate.
Quanto tale sistema possa reggere in prospettiva, a fronte di una ipotizzata riduzione dell’input idrologico per ragioni climatiche, al momento non è neanche ipotizzabile in quanto tutte le informazioni a ciò necessarie dovrebbero essere desunte dai Piani di Gestione delle acque di cui alla Dir. 2000/60/EC, la cui redazione è in capo ai Distretti, e dai servizi meteoclimatici regionali funzionanti solo in alcune regioni in sostituzione dell’abolito Servizio Idrografico Nazionale.
Considerazioni economiche.
Parimenti l’incasso proveniente dalle concessioni del demanio idrico, ora in capo alle Regioni è altrettanto poco trasparente. Gli ultimi dati aggregati a livello nazionale relativi al gettito del demanio idrico (derivazioni di acque pubbliche) provengono dall’ex Ministero delle Finanze, essendo lo Stato centrale, fino al ’98, l’unico soggetto concedente.
Con il decreto legislativo n. 112 del 31 marzo 1998, in attuazione della c.d. “legge Bassanini”, il demanio idrico è stato trasferito alle Regioni.
Con la legge 36/94, che ha trovato attuazione solo a partire dall’anno 2000, il bacino dei potenziali contribuenti si è enormemente esteso in quanto tutte le acque superficiali e sotterranee sono diventate pubbliche. A tale estensione non è corrisposta alcuna efficiente riforma organizzativa per il rilascio delle concessioni, la riscossione dei canoni ed il controllo delle opere.
I dati del 1995 (fonte ex Ministero delle Finanze), sopra riportati, evidenziano un gettito totale nazionale del demanio idrico di 169 MLD di Lire, che sale a 173 MLD di Lire, se si considerano i prelievi stagionali che non richiedono opere di derivazione stabili.
Circa il 70% dei canoni introitati provengono dall’industria idroelettrica.
Non esiste una rilevazione sistematica degli introiti derivanti dai canoni di concessione che sia successiva al trasferimento delle competenze alle Regioni. Pertanto il gettito attuale potrà essere solo stimato in relazione all’incremento subito dai canoni nel trentennio 1995-2025.
Nel corso di questi anni si sono succeduti diversi provvedimenti regionali di aumento/adeguamento dei canoni, che tuttavia eludono l’adeguamento dell’intero processo di autorizzazione e controllo, mentre la riscossione finisce in creativi capitoli di bilancio.
Pertanto partendo dallo zoccolo del 1985 e assumendo un aumento prudenziale del 60%-80%, è ipotizzabile che il gettito nazionale attualizzato sia dell’ordine di 150 – 200 milioni di euro/anno.
Tali stime vanno integrate con il contributo dei canoni dei prelievi sotterranei, intervenuto solo dopo l’anno 2000, che nel gettito 1995 figura esclusivamente per i prelievi di acqua sotterranea già iscritti nel registro delle acque pubbliche.
Va considerato che il numero di pozzi denunciati ai sensi del d.lgs. 275/93 è dell’ordine di 80.000–100.000 pozzi a Regione (rif. Umbria e Lazio); si stima che il sommerso non denunciato sia dello stesso ordine di grandezza. È pertanto presumibile una presenza di almeno 10 milioni di pozzi sull’intero territorio nazionale tra attivi, dismessi, o oggetto di approfondimento.
Solo circa 1/5 di tali pozzi è soggetto a canone, in quanto non riferibili alla categoria dell’uso domestico, esente da canone.
Tale esercizio di stima, che potrebbe e dovrebbe essere corretto su dati certi dagli attori istituzionalmente competenti, è utile per valutare in che termini sia possibile attuare un servizio sulla risorsa idrica conforme alla DQA e basato sul principio del cost recovery.
La Commissione Europea già nel 2013 rilevava come molti Stati membri abbiano frainteso il concetto di servizio idrico.
Che la questione sia rilevante lo si può dedurre dalle eccezioni della Commissione di non conformità dei servizi idrici riportati da tali Stati nei relativi Piani di Gestione delle acque.
Water Framework Directive conformity: There are still 9 non-conformity cases open regarding the WFD itself.
Sostanzialmente la Commissione già nel 2013 ha rilevato che nei Piani di gestione redatti ai sensi della DQA da alcuni Stati Membri (l’Italia non figura perché a tale data non aveva ancora costituito i Distretti), si sia equivocato sul concetto di “servizio idrico” di cui alla stessa DQA. Infatti ben nove Stati membri hanno relazionato sull’organizzazione dei rispettivi servizi di distribuzione di acque potabili e smaltimento e depurazione dei reflui, eludendo la questione più generale del servizio che riguarda l’accesso alle risorse idriche naturali il cui equilibrio, al netto dei prelievi agricoli, industriali, pubblici e privati, è l’aspetto essenziale per il raggiungimento degli obiettivi ecosistemici della Direttiva.
La Commissione rilevava che i servizi relativi alle Direttive drinkwater e wastewater costituiscono in realtà sottosistemi, spesso minimali, di quanto necessario per un servizio che contempli le risorse disponibili, i prelievi artificiali e le risorse residue per gli usi ecosistemici.
Tale rilievo di non conformità vale a maggior ragione per lo Stato Membro Italia per le ragioni sopra esposte.
Considerazioni economiche ai fini di servizi idrici basati sul principio del cost-recovery
Nel caso si voglia pervenire ad un servizio sulle acque basato sul cost recovery secondo l’accezione comunitaria, a scala nazionale o di distretto, sulla base delle precedenti considerazioni, si può stimare che il gettito nazionale del sistema concessorio possa raggiungere almeno i 400 milioni di euro/anno se si introdurranno i necessari correttivi ai canoni, o sistemi combinati canone-tariffa, e disincentivi per prelievi a forte impatto, peraltro richiesti dalla normativa europea. A fronte dei maggiori costi, l’utenza avrebbe come contropartita la certezza di poter disporre di quanto concesso a fronte di usi concorrenti, e le relative certificazioni di idoneità all’uso. Un gettito di tali dimensioni permetterebbe un’occupazione qualificata nel settore, traducibile in circa 5.000 – 10.000 lavoratori equivalenti (costo annuo 50.000 euro, logistica inclusa).
L’attuale impiego di personale è mediamente di 3/4 unità di personale a Provincia (circa 400 unità), più alcune sparute unità rinvenibili nelle ex Autorità di bacino, ora Distretti. La tendenza è quella di semplificare se non di eludere il parere vincolante previsto dal T.U.
Tutto ciò richiede che gli introiti delle concessioni idroelettriche, che da sole costituiscono il 60/70 %, siano realmente destinate a tali servizi.
In tale contesto sono richiesti forti ripensamenti circa gli usi, e i controlli sul territorio.
Ad esempio circa le captazioni dichiarate per uso domestico si rileva come la categoria “uso domestico” sia ormai obsoleta, figurando tra le opere a supporto di tale uso anche le estrazioni profonde e impattanti, diffusesi a seguito della disponibilità delle nuove tecnologie di perforazione. Estrazioni non assimilabili ai pozzi escavati manualmente che ispirarono la normativa del TU del 1933. Tali pozzi potrebbero essere assoggettati anche essi a canone. Ad esempio le estrazioni di profondità superiore ai 30 metri di cui è obbligatorio trasmettere le stratigrafie al servizio geologico dell’ISPRA. Pertanto il numero di tali utenze assoggettabili a concessione potrebbe essere dell’ordine di 5-8 milioni.
Va prioritariamente ripensato il metodo di quantificazione dei canoni per le estrazioni sotterranee, che rimane tuttora agganciato al concetto di portata derivata, in uso per le acque superficiali.
I canoni dovrebbero essere modulati in funzione dei volumi estratti, della profondità e del pregio della risorsa captata, nonché dei riflessi ambientali conseguenti al depauperamento dei serbatoi sotterranei.
In conclusione, la gestione del sistema delle concessioni, sia per la complessità delle procedure tecnico-amministrative, sia per la gravosità dei controlli sul territorio, è notevolmente onerosa e richiede pertanto di strutture e risorse umane commisurate alla sua dimensione.
Si tratta di istituire non un mero nuovo soggetto esattore, piuttosto un servizio di tecnici qualificati che possono rendere edotta l’utenza della qualità della risorsa captata nonché dei rischi di accessi concorrenti, i rischi per gli ecosistemi, e gestire con consapevolezza i periodi di carenza idrica.
Esempi in Europa di cost recovery – il modello dell’Agenzia Catalana dell’Acqua (ACA)
Lo schema concettuale del cost recovery adottato dalla Agenzia catalana dell’acqua offre alcuni spunti di riflessione rispetto a quanto si realizza in Italia con il Servizio Idrico Integrato.
Tale sistema prevede una netta separazione tra gli operatori/gestori “in alta” ovvero responsabili delle adduzioni e gli operatori/gestori “in bassa” addetti alla distribuzione e depurazione verso l’utenza connessa in rete. Il rapporto tra i soggetti segue il regime tariffario.
Tutti gli utenti, sia quelli connessi in rete, che gli utenti che accedono direttamente alla risorsa, versano il canone alla Agenzia che governa il tutto e redige i piani sulla base del bilancio idrico complessivo.
È bene notare che l’ACA gestisce un territorio paragonabile per estensione ad un nostro distretto idrografico e impiega circa 700 addetti.
Non si vuole qui sostenere il trasferimento tout court del modello catalano alla realtà italiana, piuttosto evidenziare le problematiche già note del Servizio idrico integrato.
Il legame tra i servizi idrici di cui alla legge Galli con la più generale gestione del demanio idrico di cui al TU n. 1775 del 1933 è rimasto sempre opaco come è possibile dedurre dalle passate Relazioni al Parlamento del Comitato di vigilanza delle Risorse Idriche.
In tali relazioni, che riguardavano principalmente lo stato e le carenze nell’attuazione del Servizio Idrico Integrato (SII), poco spazio è dedicato alla consistenza della risorsa idrica nazionale, ancorata alle deduzioni della Conferenza Nazionale delle acque del 1972 che si basava sui dati ancora disponibili dei Servizi Tecnici Nazionali.
In sostanza, di quanta risorsa si disponga, quanta di essa sia effettivamente utilizzata e concessa per i principali usi e quanta di conseguenza sia ancora concedibile al netto degli usi ecosistemici (esigenza questa emersa chiaramente a seguito della direttiva 2000/60/EC e direttive collegate) non è oggetto di una sistematica ricognizione atta a formare un bilancio idrico costantemente aggiornato e spazialmente significativo.
Peraltro la governance del SII nella sua originaria configurazione prevedeva un ambito territoriale perimetrato secondo criteri ottimali che rispecchiassero la distribuzione naturale delle risorse a fronte di un bacino coincidente di utenti/consumatori. Nella pratica attuazione gli ambiti ottimali hanno finito per identificarsi in gran parte con i limiti provinciali.
In tale assetto la risorsa idrica perviene in misura maggiore o minore dalle grandi adduttrici che si originano in altri bacini/ambiti e che sono esposte a contenziosi espliciti o a sottrazione occulta di risorsa. Da questa parziale disamina delle problematiche attuative del governo delle acque, appare evidente che quanto fu pensato per una governance centralizzata e assistita da Servizi Tecnici Nazionali, non regga alla esplosione della domanda ed alle questioni ambientali successivamente emerse, nonostante i correttivi introdotti nella fase di decentralizzazione.