Nelle riflessioni di Alessandra Valentinelli sul regolamento UE per il ripristino della Natura vengono affrontate le diverse problematiche generate dall'applicazione della normativa, a un anno dalla sua entrata in vigore.
In particolare il tema delle contraddizioni tra le esigenze ormai inderogabili di ripristino della natura (in termini di contenimento del consumo di suolo e di ripristino della cvonnettività fluviale) e il trend tuttora allarmante del consumo di suolo (anche nelle aree a pericolosità elevata) nelle diverse realtà regionali.
Con il cambiamento climatico in corso va disvelata l'illusione che basti imbrigliare fiumi per consumare suoli altrimenti soggetti al rischio,o che la dissipazione di terreni utili a intercettare, assorbire e rallentarei carichi di pioggia si risolva alzando argini, salvo accorgersi della spirale con cui il deficit di funzionalità del reticolo idrografico accentua le criticità idrauliche e le porta sotto casa.
I contenuti del Regolamento
È passato poco più di un anno dall’entrata in vigore del Regolamento 2024/1991 per il Ripristino della Natura varato il 18 agosto 2024 dal Parlamento europeo. Approvata non senza acceso dibattito, la Nature Restoration Law risponde alla preoccupazione crescente per la perdita di biodiversità, introducendo innovativi criteri d’azione. La norma infatti accoglie le indicazioni trasversali che le principali agenzie internazionali stanno maturando per superare la tradizionale settorialità d’intervento: quel che il Panel Intergovernativo per il Protocollo sulla Biodiversità IPBES chiama “siloed approach”, e IPCC “maladattamento”, entrambi soffermandosi sulla sua inefficacia a fronte della multidimensionalità delle sfide climatiche e, viceversa, ribadendo l’urgenza di politiche ambientali fondate su valutazioni interdisciplinari e correlate alle condizioni dei territori; un testo ambizioso e necessario.
In Italia se ne parla ancora poco nonostante la particolare suggestione che il tema assume incrociando gli scenari di riscaldamento attesi nello Stivale, ai dati del consumo di suolo e all’ultimo Rapporto Ispra sui dissesti. Eppure sono concetti famigliari che ricollegano la prevenzione degli eventi di tipo idraulico, siano essi alluvioni o gli ormai frequenti allagamenti urbani, all’arena del contrasto delle vulnerabilità ai rischi climatici, e in tal modo inquadrano il riassetto non strutturale in più ampie strategie di adattamento al clima.
In linea con la finalità generale di ripristinare il 20% degli ecosistemi sia terrestri che marini entro il 2030, il Regolamento 2024/1991 stabilisce a quella data alcuni target vincolanti: fermare la perdita di aree verdi e salvaguardare il 10% delle coperture arboree esistenti all’interno dei tessuti urbani, invertire il declino degli impollinatori, ricostituire la connettività fluviale (per almeno 25.000 km di aste europee). La traiettoria europea di risanamento prosegue poi al 2050, con il miglioramento della biodiversità di terreni agricoli e soprassuoli forestali (comprese le comunità di farfalle e uccelli), il recupero delle zone umide, il restauro delle cenosi marine e costiere. Per chiarire portata e modalità dell’impegno, il testo UE e i relativi documenti di lavoro pongono l’accento, prima che sulle eccellenze degli habitat da tutelare, sulla funzionalità dei servizi ecosistemici ossia sulle dinamiche dei processi da riqualificare: un vasto programma che presenta per lo spazio fluviale cruciali opportunità di gestione integrata, e intersettoriale, alla scala locale e di bacino idrografico.
Per i corsi d’acqua, lo Studio dell’impatto degli obbiettivi inderogabili (“binding”), curato dalla Direzione Generale Ambiente della Commissione nel 2023 con il supporto di UNEP e IUCN, esamina la problematica attuazione della Direttiva Quadro 2000/60 in combinato disposto con le Direttive Habitat 92/43 e Alluvioni 2007/60. Gli esperti sottolineano gli scarsi risultati nel garantire il “buono stato ecologico”, raggiunto, malgrado le proroghe, nel 2018 solo dal 40% degli ambienti fluviali, di contro a pressioni persistenti da sversamenti inquinanti, prelievi idrici e alterazioni idromorfologiche, specie nelle più sensibili zone alluvionali. Il 34% del reticolo superficiale comunitario sconta inoltre un regime modificato da sbarramenti e traverse (di cui un 10% in disuso, facilmente rimovibile); il che, spiegano, preclude le connettività longitudinali, laterali e di fondo dell’alveo, generando le cattive condizioni delle pertinenze riparie con cui vengono meno funzioni ambientali essenziali sia di ricarica e filtraggio degli acquiferi, sia di difesa idraulica e contenimento delle intensità di piena.
L’EEA, l’Agenzia europea per l’ambiente calcola, al 2019, il 70% delle piane alluvionali interessate da fenomeni di degrado per la metà gravi e per il 12% critici, mentre la riconversione all’espansione naturale delle acque procede in poche aree, nessuna urbana.
Spicca il Piano “Room for rivers”, avviato in Olanda dopo i terribili eventi del 1993 e 1995, che ha aggiunto 4.000 ettari di golene ai 28.800 esistenti; 30 interventi per 2,5 miliardi di spesa completati nel 2018, che oggi consentono al Reno un franco di 16.000 mc/sec, superiore ai 15.000 transitabili ante operam e al picco dei 12.000 di metà anni ’90.
Dal controllo degli eventi al governo dei processi
In un simile panorama di luci (scarne) e (parecchie) ombre, rileva l’indubbio merito del legislatore comunitario nell’ammettere che gli sforzi pur ingenti di controllo delle situazioni critiche (su tutti, nell’abbattimento delle concentrazioni inquinanti) non paiono adeguati per arrestare le tendenze al degrado: solamente il 10% degli habitat e appena il 6% delle specie animali ripariali mostra miglioramenti nello stato conservativo, rispetto a oltre un terzo in peggioramento; così la legge introduce un cambio di passo che incida, non tanto e non solo sulle singole manifestazioni di deterioramento ma sugli assetti funzionali, a partire da quella connettività ecologica che, derivando dalle condizioni territoriali le proprie dinamiche idromorfologiche, governa con la qualità degli ambienti fluviali, la risposta a piene e siccità.
Gli ecologi la definiscono “antifragilità” in riferimento alla reazione degli ecosistemi alle perturbazioni esterne per produrre nuovi equilibri: un insieme di interazioni complesse con i fattori di stress che si avvale della ricchezza di biodiversità della comunità floro-faunistica per favorirne l’adattamento. Secondo gli studiosi di ecologia urbana caratterizza anche i processi di rinaturazione spontanea delle città, dove specie ruderali e piante pioniere con funzioni vicarianti collaborano per lo sviluppo di maggior stabilità ecosistemica, in un’ottica multirischio.
Nei fiumi l’antifragilità è subordinata alla connettività che ne moltiplica le nicchie ecologiche correlate al regime idrologico finendo per esercitare, sulle medesime variabili di distanza, portata e stagionalità che ne presiedono la sopravvivenza, retroazioni positive sulle grandezze idrauliche di moto vario: velocità, raggio, pendenza, scabrezza… È in questo ventaglio il focus di strategie mirate, prima che all’intensità, alla vulnerabilità agli eventi cui il territorio è esposto.
Quando nel maggio 2023 abbiamo assistito attoniti all’alluvione in Romagna, molti di noi hanno salutato con sollievo la decisione della Cooperativa Agricola Braccianti “Ter.Ra”, la più antica dell’area, di allagare parte dei propri campi lungo il Canale Magni per salvare, a valle, la città di Ravenna. Quel gesto di solidarietà, radicato nelle lotte tardo ottocentesche della Bassa e ripagato da sincera gratitudine (52 i milioni raccolti), attende ancora i dovuti risarcimenti che il ministero rilascia col contagocce. Ma non spettava agli agricoltori: poiché attiene le destinazioni d’uso dei suoli, l’adattamento al clima non può dipendere dai sacrifici estemporanei di qualche volenteroso. Per compensare i danni di ciascuno con benefici redistribuiti collettivamente, la cessione di terreni rivieraschi alla libera esondazione fluviale è una responsabilità di natura eminentemente istituzionale; compete al Piano di Gestione del Rischio Alluvioni che, invece di enumerare opere di supposta messa in sicurezza, ha l’autorità per prefigurare lo spazio da restituire al fiume: con scelte calibrate su evidenze scientifiche, serie storiche, modelli previsionali, su carte dei passati eventi e rilievi degli ecotoni relitti, ponderate da esperti nelle varie discipline e soprattutto condivise con le comunità locali.
Il quarto e ultimo Rapporto Ispra sui dissesti, presentato a Roma a fine luglio, illustra un Paese che ricade interamente (94%) nelle diverse categorie di rischio idrogeologico. In altri termini, alluvioni, frane, valanghe, erosione costiera formano il nostro paesaggio quotidiano e ne segnano i palinsesti. Nel 2023, per rischio idraulico, è risultato a pericolosità elevata, allagabile con tempo di ritorno compreso fra 20 e 50 anni, il 5,4% del territorio nazionale (16.224 kmq), a pericolosità media per tempi di ritorno fra 100 e 200 anni il 10% (30.196 kmq), il 14% a pericolosità bassa per 42.376 kmq soggetti a eventi rari o estremi; in tali zone la popolazione esposta è, rispettivamente, il 4,1% del totale italiano (2.431.847 abitanti), l’11,5% (6.818.375 residenti) e il 20,6% (12.257.427 persone). Lo stesso anno, le vittime di alluvioni sono state 17 in Romagna, 8 in novembre in Toscana, con 8,5 miliardi di danni certificati nel caso romagnolo e circa 2 tra Firenze, Pisa e Livorno. Esclusi i beni lesionati o le persone evacuate, mancano dati articolati sulla fragilità dei luoghi colpiti ma la si può approssimare osservando il territorio; fra il 3 e il 17 maggio 2023, in Romagna sono straripati 23 corsi d’acqua, oltre 250 le frane, un centinaio i centri coinvolti dagli Appennini al mare: un disastro che interroga più del meteo avverso, le modalità con cui i territori si trasformano per convivere col rischio.
Il toponimo “Bassa” individua lo storico compendio delle bonifiche emiliane. I fiumi vi scorrono pensili su una pianura solcata dalla fitta maglia di canali adduttori e scolmatori. La località Lavezzola è rimasta allagata per due settimane con evidenti problemi igienici, ma Conselice non è stato l’unico comune in difficoltà nel convogliare i volumi esondati e a poco son valsi, per gli eccessi di portata, i tentativi persino d’invertire i deflussi canalizzati. Classificata a media pericolosità, l’idrografia altamente modificata dagli schemi irrigui, la massima vulnerabilità di un paesaggio strutturato dai conflitti d’uso per l’acqua e per la terra si è chiarita quando, dal fango dell’emergenza, è emerso il dato del consumo di suolo.
Nel 2023 Ispra ha registrato in Emilia un aumento dello 0,41% di suolo consumato, superiore al valore nazionale di 0,34%. La regione si mantiene quarta, dopo Lombardia, Veneto e Campania, con un totale impermeabilizzato del 8,91%, sopra la media italiana del 7,16%.
Ravenna ha primeggiato con Roma per i massimi incrementi assoluti (+89 ettari) seguita, in regione, da Reggio (+43 ha) e Forlì (+36). Il 52% della crescita di nuovo suolo artificiale si è inoltre concentrato nell’areale a rischio idraulico della Bassa (+577), e lungo i corpi idrici (+123,4 ha), dove 33.261 ettari sono ormai edificati.
Secondo lo studio svolto dalla Regione Emilia Romagna con le Università di Parma e Bologna, i dati rifletterebbero l’ultima impennata di consumo, effetto della legge regionale 24/2017 su la “Disciplina sulla tutela e l’uso del territorio”: la norma ha infatti fissato al 31 dicembre 2021 il termine per avviare l’approvazione degli strumenti urbanistici e al 31 dicembre 2023 la stipula delle relative convenzioni, dopo di che il decadere delle previsioni insediative non attuate ha comportato il taglio di 15.274 ettari sui 21.922 inseriti nei piani urbanistici previgenti che, nelle aree a rischio idrogeologico, ha investito l’80% del totale; d’ora in poi i Comuni potranno trasformare solo il 3% dell’urbanizzato al 1 gennaio 2018.
Il dramma dell’alluvione raccontato da Pascal Bernhard nel documentario “Romagna Tropicale” ritrae tuttavia gli esiti dello sviluppo passato. La vera scommessa dell’Emilia, che punta alla rigenerazione prima che a nuova edificazione, si giocherà quindi non soltanto sugli ettari stralciati dai piani, ma su un’attenta ridestinazione dei 1.626 ettari di aree dismesse da vecchie funzioni zootecniche, produttive, per attrezzature generali e di mobilità, il cui riutilizzo dovrà essere attentamente commisurato con fragilità al clima ancora attualissime.
L’Emilia è inoltre l’unica a procedere in questa direzione, e la vicenda romagnola deve valer da monito nel Bel Paese assalito dal cemento. Dall’inizio delle rilevazioni nel 2006, l’Italia ha consumato 1.332 kmq di suoli naturali o seminaturali: ad oggi un quarto dei territori suburbani è stato edificato tanto che poco meno di metà del territorio nazionale soffre per frammentazione ambientale alta (23,6%) o molto alta (18,74%). Per Ispra la conseguente perdita in servizi ecosistemici oscilla tra 400 e 500 milioni di €/anno, per circa 10 miliardi totali dal 2006, 7-8 dei quali in perdita di permeabilità e funzioni di regolazione idrologica. È costruito il 6,4% delle aree a pericolosità elevata (103.576 ha), il 9.3% di quelle a pericolosità idraulica media (281.610 ha), l’11% di quelle a rischio di eventi rari (472.816); consumate l’8.6% delle fasce fluviali entro i 150 metri dall’alveo: 256.913 ettari, i più situati in Emilia, Lombardia, Piemonte. Ispra stima anche i comuni potenzialmente soggetti agli obblighi del Regolamento 2024/1991 (art.3): sono 3.178, il 40,2%, dove l’entrata in vigore della legge il 18 agosto scorso dovrebbe azzerare la contrazione di superfici verdi e coperture arboree, ma dove l’aumento di suoli consumati nel periodo 2021-2023 ha interessato il 94% dei “grandi centri urbani” e l’89% dei “nuclei urbani densi”, al punto che solo un terzo della popolazione delle 14 aree metropolitane ha accesso a spazi verdi pubblici entro le soglie climatiche e sanitarie che IUCN e ONU (con l’SDG 11.7.1) fissano a 300 e 400 metri a piedi.
Se tali tendenze accelerano a dispetto della parallela, crescente percezione degli impatti del clima, i numeri allora fotografano l’illusione che basti imbrigliare fiumi per consumare suoli altrimenti soggetti al rischio, o che la dissipazione di terreni utili a intercettare, assorbire e rallentare i carichi di pioggia si risolva alzando argini, salvo accorgersi della spirale con cui il deficit di funzionalità del reticolo idrografico accentua le criticità idrauliche e le porta sotto casa. Del resto con dati carenti per ottemperare l’art. b9 sulla connettività fluviale, è arduo correggere convinzioni e prassi consolidate: non ci sono infatti informazioni sufficienti a verificare l’alterna officiosità causata da ponti, intubamenti, barriere spondali, infrastrutture in fregio all’alveo attivo che l’onda di piena poi distrugge o la cui tenuta spesso causa dissesti peggiori; lacune che la Piattaforma RENDIS dovrebbe colmare in virtù del Regolamento, e magari di standard applicabili sulla falsa riga di quelli anti-sismici. Per adattare al clima il paesaggio dei fiumi, serve la mosaicatura dei rischi integrata agli eventi, ai loro effetti erosivi e idrodinamici, al loro accadere o ripetersi in relazione ai processi di segregazione delle connessioni ecologiche dei corridoi fluviali, allo stato delle residue pertinenze idonee a riscattarli; valutazioni con cui misurare le scelte per arretrare gli argini, recuperare le golene alla libera meandrizzazione, i reticoli minori, le sponde urbane, la forestazione di difesa: basi di altrettanti strumenti per prevenire i rischi con la visione che la Nature Restoration Law auspica governi presto lo spazio del fiume e le sue dinamiche, a vantaggio della collettività.